Catechesi in pillole – Prima puntata del 3/11/2024

Catechesi in pillole – Prima puntata del 3/11/2024

“SECONDO LA TUA MISERICORDIA”

Prima puntata: sacramento della confessione – perché dire i peccati?

 

Una piccola premessa

La catechesi “in pillole” di quest’anno sarà dedicata al sacramento della riconciliazione, in collegamento con il percorso più articolato della catechesi degli adulti che affronta il tema in modo più ampio, al di là della sua forma sacramentale.

Qui ci concentreremo su alcune suggestioni legate al sacramento del perdono, a partire da alcune questioni molto concrete. Si tratta infatti di un sacramento complesso, a partire – ad esempio – dalle sue molteplici definizioni (confessione, riconciliazione, penitenza, …) e dai numerosi interrogativi che suscita (perché devo dire i miei peccati? Perché devo dirli a un prete?).

Oggi affronteremo la prima definizione (sacramento della CONFESSIONE) e la prima domanda (perché dire i peccati).

 

Il termine CONFESSIONE dal punto di vista biblico e teologico non è di per sé riferito all’accusa dei peccati. La confessione è in realtà un atto di fede. Si confessa la fede. Vi accenno tre brani biblici tra i molti:

  • 6: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo…”;
  • Giovanni Battista che nel cap. 1 del vangelo di Giovanni si dice “confessò e non negò e confessò Io non sono il Cristo”;
  • 10: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore…”

Si confessa la fede, si racconta chi è Dio per me e di conseguenza chi sono io.

Ecco perché il termine CONFESSIONE va molto bene anche per chi dichiara il proprio peccato. Dichiaro chi è Dio per me e dichiaro chi sono io davanti a Dio.

Anche nel sacramento del perdono, la confessione è atto di fede. Il racconto dei propri peccati non è esercizio di memoria, non è gesto di umiltà (tanto meno di umiliazione).

È piuttosto il modo con cui io riconosco chi è Dio: uno al quale la mia vita interessa. Quelle cose lì che racconto quando vado a confessarmi, a Dio interessano.

Ed è il modo con cui io riconosco che la Parola di Dio è un riferimento serio per la mia vita; a quella Parola divina io do credito; a quella Parola io attribuisco una signoria sulla mia vita, al punto da riconoscere come peccato ciò che da quella Parola si distanzia.

Capite bene che non ci domanderemo mai abbastanza se la nostra confessione la prepariamo a partire dalla Parola di Dio o a partire da un generico buon senso, da un giudizio comune (e mondano) dagli scrupoli di coscienza.

 

Ed eccoci allora alla questione seria: perché devo DIRE I PECCATI? Perché devo formularli, esplicitarli?

La domanda non è affatto banale. Vi basti pensare che nei primi secoli del cristianesimo il sacramento della riconciliazione non prevedeva l’accusa dei peccati né il colloquio personale con un sacerdote.

Molto interessante. Nel senso che questo gesto (il racconto dei propri peccati) è stato un “guadagno” dei cristiani, una conquista, un passaggio nuovo e decisivo. La Chiesa nella sua “pratica” del sacramento ha realizzato ad un certo punto che questo atto del dire i peccati era molto significativo, faceva bene. Ti fa bene dire i peccati.

In che senso? Che guadagno c’è a DIRE I PECCATI (ecco che la domanda si è trasformata)?

 

Velocemente ne accenno tre.

Il primo lo definirei un incremento di lucidità. Se sono costretto a dire il mio peccato, devo ragionarci sopra, dargli un nome preciso, valutare con intelligenza cause e conseguenze. Lo comprendo meglio, lo giudico meglio.

Il secondo guadagno è una presa in carico della propria responsabilità. Da Adamo in poi la tentazione a seguito del peccato è quella di scaricare la colpa, di cercare giustificazioni. Dire il peccato significa dichiarare: sono stato proprio io.

Infine, dicendo verbalmente il peccato, in qualche modo lo “porto fuori” da me e lo consegno veramente e definitivamente alla misericordia di Dio.

Certo, poi c’è il problema del dire i peccati al prete. Ma questa domanda la affronteremo nella prossima puntata.

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